Franco Pedrina

Giancarlo Pauletto

Per questi Dieci anni di pittura di Franco Pedrina, non è possibile, a mio avviso, scegliere quel tipo di introduzione che si può definire “di assonanza”; intendo quella scrittura - pur avendo la sua validità  e i suoi vantaggi critici - che cerca di restituire contenuti e termini formali di un modo di dipingere specialmente attraverso una loro traduzione nella fluidità della “bella pagina”, del brano letterario in concorrenza parallela col brano pittorico, piuttosto che tentando un’analisi dei dati che, nelle opere, rendono ragione di una certa disposizione davanti alla realtà, e della coerenza (o incoerenza) di certi risultati.
Non è solo l’ampiezza, e il carattere almeno in parte antologico della mostra, che convince a questa seconda e per conto mio più faticosa direzione, ma proprio la vera sostanza di cultura che la mostra medesima esprime, e che rischierebbe in altro modo di rimanere troppo sottointesa: dove per cultura intendo non il fatto che si possa scorgere nelle opere il rimando ad una qualche tradizione figurativa (un certo naturalismo, un certo espressionismo, etc.) o la presenza di suggerimenti formali tratto da questo o quel protagonista dell’arte passata o presente, ma invece la sintesi operata dal pittore tra esperienza esistenziale, specifica cultura artistica, e riflessione; sicché le opere, e in particolare quelle degli ultimi anni, mi sembrano in grado di trasmettere, di Pedrina, non solo questa o quella fantasia, per quanto accattivante, questo o quel lacerto di esperienza, per quanto significativo, ma tutto lui, tutta la sua realtà culturale ed umana, secondo il grado di complessità ed elaborazione riflessa cui oggi è giunta.
Questo non sembri ovvio, né poco: è raro invece, ed è moltissimo. È, dal punto di vista del discorso critico, il massimo per chi, come lo scrivente, non crede affatto alla pittura d’istinto, cioè ad una pittura non mediata da una precisa consapevolezza: la quale, quando c’è, resta inevitabilmente minore, accidentale: né qualcuno obbietti citando il surrealismo, o Pollock, perché dimostrerebbe a mio avviso solo di non aver ben riflettuto su tutta la cultura, e quindi su tutta la storia, che sta dietro a quelle esperienze.
Io invece credo che arte, e quindi pittura, sia riflessione che si salda al vivere, atto di conoscenza che si esprime nei termini metaforici dell’immagine piuttosto che nella definita chiarezza dell’assioma o dell’argomentazione. Così è appunto la pittura di Pedrina, riflessa, tentata, percorsa e ripercorsa, e certa sua calda, felicissima “spontaneità” non ha proprio niente di originario, di naturale: è invece esplorazione calcolata dello spazio della tela, idea e struttura, lavoro e prova instancabile: settimane, mesi e qualche volta anni - per il medesimo quadro - di riprese e di tensioni.
Dunque una pittura estremamente ragionata, di sintesi. Nel senso che ogni quadro non rimanda ad altro che a se stesso, non è momento di una serie, non è parte di un polittico - anche se, ovviamente, lo stesso soggetto può tornare più volte, finché non sia esaurita la sua capacità di essere occasione di pittura. Si tratta insomma di opere che tendono ogni volta a riproporsi come riassunto globale di un certo atteggiamento nei confronti della vita e della realtà. Prova ne sia il fatto che Pedrina, ormai da anni, ruota la sua ricerca attorno ad uno stesso nucleo di riflessioni e di tensioni emotive, anche se questo nucleo, naturalmente, si va spiegando di volta in volta secondo l’occasione proposta dal soggetto (gli alberi, i paesaggi, le memorie degli anni tra il ’65 e il ’68, e poi i gabbiani, le viti, ultimamente l’insistenza sulla tecnica dei ceppi, senza che questa successione molto sommatoria escluda ritorni di tema anche dopo anni, ma allora nell’ottica degli sviluppi compositivi che si sono via via succeduti) e, dentro il soggetto, secondo una sua determinata accezione, che può apparire anche fortemente legata a reazioni molto concrete e puntuali: voglio dire, per esempio, a certe particolari scoperte dell’osservatore, a certe emozioni che sono legate a circostanze non cercate, ma che l’esistere stesso si incarica di offrire.
Ma che fisionomia ha questo nucleo di emozioni-riflessioni che, depositato al centro della personalità, costituisce il materiale cui Pedrina attinge per la sua pittura, e che in definitiva determina il suo atteggiamento nei confronti della realtà? Non vorrei che il mio sottolineare la complessità costruttiva della maggior parte di questi quadri facesse pensare ad una prevalenza di astrazioni intellettualistiche, a tutta e pura intelligenza. In realtà il controllo operativo del pittore si esercita solo dopo che temi ed emozioni sono emersi dal fondo del vissuto, e si sono imposti da sé come provocazioni alla pittura; dopo comincia la mediazione costruttiva, quando si tratta di articolare ciò che è ancora indistinto, in linguaggio aperto alla lettura. Ma proprio per questo non è semplice esplicitare in termini esatti l’essenza di questo nucleo, che d’altra parte è la chiave per capire l’opera del pittore dall’interno, al di là di un apprezzamento magari alto, ma generico perché legato soltanto alla constatazione delle sue sperimentatissime capacità professionali.
Mi scorre una citazione, che spero non gli dispiacerà, e che esprime per conto mio molto bene la sostanza del rapporto del pittore con tutta la realtà, di cui chiaramente ciò che appare nei quadri, viti o ceppi o paesaggi, non è che un traslato particolare, una evidente metafora. È una citazione da Leopardi: «Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente, sia nella più mite stagion dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non vi troviate del patimento […] Là quella rosa è offesa dal sole […] là quel giglio è succhiato crudelmente da una ape […] quell’albero è infestato da un formicaio […] questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; quello è offeso nel tronco o nelle radici […] là uno zeffiretto va stracciando un fiore, vola con un brano, un filamento, una foglia, una parte viva di questa o quella pianta […] Intanto tu strazi le erbe co’ tuoi passi […] ne spremi il sangue, le rompi, le uccidi […] Certamente queste piante vivono […] Lo spettacolo di tanta copia di vita all’entrare in questo giardino ci rallegra l’anima, e di qui è che questo ci par essere un soggiorno di gioia. Ma in verità questa vita è triste e infelice…».
C’è, in questo brano, l’essenza del sentimento leopardiano della natura, cioè della realtà e della vita. Da un lato essa rallegra l’anima, e sembra «un soggiorno di gioia». Dall’altro, ma questo è vero solo per la ragione che indaga, non per il cuore che sente, essa scopre rapidamente tutta la sua implicita, necessaria, inevitabile «crudeltà». Ora, senza identificazioni forzate, (ma certo la modernità e l’apertura estrema della lucida ragione leopardiana rende nient’affatto anacronistico il rapporto), mi sembra che anche nella sensibilità di Pedrina vivano questi due atteggiamenti nei confronti dell’esistere. Esso può identificarsi con la danza amplissima, sul ritmo delle stelle, di certe Viti, oppure sfolgorante cosmicità della grande Estate, di una serenità calma e profonda; ma non appare spesso, anche, con la crudeltà disperata in cui respirano certi Ceppi sfatti, penetrati da uno spazio che li fende e li smembra.
Quanto di filosofia e quanto di vita vi sia in questo atteggiamento non creo possibile distinguere, nel momento in cui esperienza e ragione hanno comunque determinato una consistenza esistenziale che si offre, nei quadri, nella sua specifica e concreta unità estetica.
È possibile invece percorrere, mediante il riferimento ad alcune categorie proprie del far pittura, la strada attraverso cui Pedrina, in questi dieci anni, ha approfondito la sua tematica, fino alla forza e chiarezza attuali. A questo proposito almeno due sono gli elementi che si devono considerare, l’idea dello spazio che si ricava dai quadri e, parallelamente, la qualità emotiva del colore.
Dirò innanzitutto che anche le opere di otto o dieci anni fa vivono, a mio avviso, nel clima mentale e psicologico cui fa riferimento il brano che ho citato. Prova ne sia la presenza di certe inquietudini, di certe oscurità cui accenna anche Marco Valsecchi in una presentazione del ’68, e in genere di un modo di deformare che non è né quieto, né idillico, anche se funzionale a quel momento della ricerca, più giocata sul versante dell’abbandono lirico, di una suggestione naturalistica (Pedrina è veneto, e questo ha la sua precisa importanza) che assume a volte i toni del fiabesco.
Coerentemente, lo spazio di questi quadri è in genere quello bidimensionale del sogno o del racconto favoloso; altrettanto coerentemente, e per usare le parole molto pertinenti di Valsecchi, il colore si dipana di una «tonalità calda e irradiante ma castigata nelle rutilanze esteriori», gli intarsi cromatici si scalano in verticale «legati da una risonanza di tono che si ripercuote da cima a fondo dentro gli impasti grevi eppure luminosi delle stesure di colore», rendendo evidente «la dimensione suggestiva di un sogno irripetibile».
Nelle opere ultime, invece, la metafora sulla contraddittorietà del reale è diventata più esplicita, e più immediatamente dichiarata. Lo spazio infatti, specialmente nella sequenza splendida dei Ceppi, diventa cosmico, avvolgente, penetra e fende la consistenza della materia, la spacca, genera schegge puntute, aculei, ferite pietosissime, mentre il legno diventa un essere vivente che lotta contro la propria dissoluzione, e quindi assume il movimento stesso dell’esistenza, oppure il chiuso abbandono della morte.
Conseguentemente anche il colore, che del resto in Pedrina non viene mai dopo, è sempre tutt’uno con la forma e il clima del quadro, si scalda e si complica, assume consistenza biologica, di plasma, diventa carne e sangue, tanto più drammatico quanto più, a volte, inventato, non naturalistico.
D’altra parte questa dei ceppi sfatti non è tutta l’ultima, né la penultima, pittura di Pedrina. Essa potrebbe essere considerata, per amor di schema, piuttosto il polo opposto a quello rappresentato dal lirismo degli anni ’65-’67; c’è, in un mezzo non estetico, ma psicologico e anche temporale, una notevole parte di quadri che non sono né strettamente lirici, né dichiaratamente drammatici, ma piuttosto interroganti, problematici, aperti e attenti ad una certa declinazione dello stupore e del mistero. C’è, per esempio, la serie dei paesaggi-foresta degli anni ’69 e ’70, di cui qualche magnifico esempio è anche presente in mostra, c’è il tema dei gabbiani, che non sempre si risolve nella notazione tragica della bellezza distrutta, ci sono le viti e la loro danza cosmica, c’è quello straordinario quadro che è l’Arancio selvatico del ’74, sintesi tesissima di attrazione e repulsione, idolo che dà vita e morte, drago-divinità che custodisce l’entrata di favolosi paradisi: la vita, insomma, questo regalo assoluto (come certi quadri, dice di Pedrina) che ci troviamo a dover interpretare e riempire di contenuti, e che appunto per questo è rischio e libertà, ma solo attraverso e dopo lo sforzo della conoscenza.
Siamo di fronte, in conclusione, ad una pittura in cui mestiere, cultura, esperienza esistenziale riescono a sintesi non solo importanti per la qualità strettamente pittorica, ma anche emozionanti per lo spessore di acutezza conoscitiva che esprimono, cioè, in definitiva, per la loro grande sostanza di poesia.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Sagittaria, Pordenone, marzo-aprile 1976)

 

A parlare di Franco Pedrina, il riferimento alla tradizione della pittura veneta è ovvio ma necessario, perchè non è solo indicazione generale di un’aura, ma strumento critico, s appena si pone mente alla luce  e allo spazio totale di un Giorgine, di un Canaletto. Chi ha presente la Pala di Castelfranco ricorderà la sua luce diffusa e melodiosamente uniforme, l’uguaglianza musicale dello spazio interno e dello spazio esterno, solo concettualmente, non emotivamente separati dal rosso forte del manto della Vergine; e chi ha in mente le sublimi acqueforti del Canaletto, ricorderà bene come la realtà universa è in quelle tavole intrisa di una luce “naturale”, che diventa l’esemplare luce del dover essere del mondo.
Ora, anche quello di Pedrina è un naturalismo, anche la sua pittura è precisamente posta in essere dal colore, anche il suo spazio è una spazio “totale“, cioè avvolgente, sincronico, non direzionato insomma decisamente metaforico.
Anche la sua pittura è quindi, al fondo, una pittura “filosofica”: ma non nel senso del simbolo o della concettualità, bensì perché i suoi contenuti sono contemporaneamente cose della natura e strumenti attraverso i quali si chiarisce un sentimento della vita, una riflessione sulla realtà.
Tutto questo è proprio della tradizione veneta, e giunge dai grandi esempi del passato fino al nostro secolo, fino ai giorni nostri: passando nell’Ottocento attraverso il miglior Ciardi e poi nel Novecento attraverso Gino Rossi, fino a una certa pittura “naturale”di un artista come, per esempio, Alberto Gianquinto. Così qualunque quadro di Pedrina può essere preso a testimone di questa sua pittura naturale e filosofica assieme, ma particolarmente significativi possono apparire certi quadri di vigne, dove è il tema stesso, pur così vicino all’esperienza, che si dà alla visione generando uno spazio misterioso, uno spazio che pone domande sul significato di se stesso, perché è sospeso, sembra non avere un sopra e un sotto, è lo spazio totale e infinito dell’universo. Dentro questo universo qualcosa vive e si trasforma da radici non visibili, da un caos che diventa cosmo, ma un cosmo provvisorio, già percorso dalle contraddizioni che nuovamente lo diverteranno in caos. Mai, niente nella pittura di Pedrina è semplicemente costituito, esistente, niente è affermato nel suo puro esserci.
E non perché egli non senta le cose naturali anche nella loro splendida bellezza, o addirittura nel loro tripudio. Ma perché questi caratteri di ciò che è naturale, quando ci sono, sono sempre sottointesi come provvisori, come stati d’esistenza sottoposti a consunzione.
Dieci o quindici anni fa, al tempo della sua prima mostra pordenonese, questo sentimento della vita produceva grandi tele intensamente drammatiche, ceppi - forme - paesaggi percorsi da violente tensioni, con risultati, talora, di grandiosa spettacolarità.
Oggi quelle tensioni si sono come interiorizzate al quadro, trovano la loro voce in un uso del colore quanto mai rastremato, alluso, più sussurrato che espresso - ma naturalmente, questo sempre all’interno di una sua concezione vivida, vitale, veneta appunto, per cui esso è sempre assoluto protagonista non solo in quanto “fa” l’opera, ma proprio in quanto ne costituisce il senso.
Ed è un colore denso e ingrumato, oppure tirato e acqueo, ma sempre di netto sapore esistenziale, avendo la preziosità sacrale e talora persino un po’ repulsiva di ciò che è biologico, di ciò che viene non dall’artificio ma dalla concreta esistenza della carne e del sangue.
Basta prendere, ancora, i ceppi, o l angurie di Pedrina. Esse certo trionfano nel loro rosso, ma è un rosso pieno di brividi, consapevole della su brevità temporale: «El primo vento che vien dai monti / cata le angurie verte par le sagre. / No l’è fredo, ma col cuor spacà / le fa quasi pecà come se noialtri / se fusse così scoverti…». Il poeta veneto Romano Pascutto, poeta di San Stino di Livenza, grande e poco noto - sembra essere percorso dallo stesso flusso di sensazioni di Pedrina, pittore veneto, davanti all’anguria matura che annuncia settembre e le prime piogge dell’inverno. Certo si può dire che oggi, e specialmente nelle cose di questi ultimissimi anni, la tensione drammatica si è attenuata nel pittore o, per meglio dire, si è resa meno evidente nella costruzione delle forme, di quanto non lo sia nella ricerca paziente di un colore originalissimo, prezioso, lancinante spesso nel suo sapore di traccia, di resto, di macchia di sudore naturale.
questa preziosa consunzione del colore potrebbe altresì condurre Pedrina sull’orlo del silenzio: io credo che sia anche per questo che egli affronta ora, con il lavorio e la riflessività che gli sono propri, nuovi temi quali quello della natura morta con elementi artificiali - l’ombra di un caminetto, l traccia di una tovaglia - o quello del mulino ad acqua, dove la naturalezza e la mobilità dell’elemento di natura si scontra con la rigidezza dell’elemento meccanico costituito dalla pala e dal muro: temi questi che, almeno teoricamente, appaiono più difficili di quello del nudo, già affrontato e risolto all’interno di un perfetta naturalizzazione del corpo femminile, sicché esso, pur con tutta la sua “diversità”, diventa ancora momento dove il ritmo necessariamente drammatico della vita universa trova un culmine di fulgida esaltazione prima di essere a sua volta deversato nell’indistinzione originaria del tutto.
Pedrina, insomma, è un’artista che chiede alla pittura senso, emozioni, verità. Lavora in diminuendo, vuole oggi che la parola finale non coinvolga in uno spettacolo, ma convinca per la sua riconosciuta positiva affabilità. Vuole dialogare, non persuadere e per questo ha rinunciato ad ogni sia pur onesta e perfino necessaria declamazione.

(Presentazione nel catalogo della mostra, Galleria Sagittaria, Pordenone, febbraio-marzo 1989)

 

 

Chi si occupa di arte contemporanea – con tutto il piacere e la difficoltà che questo implica, dovendo costui necessariamente navigare tra proprie e altrui contraddizioni, narcisismi, ambiguità a volte stimolanti, speso defatiganti e frequentemente, nel breve tempo concesso alle decisioni, irresolubili – ha, di solito, qualche riferimento saldo, costruito nel tempo, attorno al quale le sue prospezioni possono cercare di organizzarsi senza continuamente rischiare il naufragio nel mare indistinto in cui si afferma adesso quel che si nega tra dieci minuti, dicendo tutto e il contrario di tutto nella stessa cartella stampa.
Per quel che mi riguarda, dopo aver preso atto innumerevoli volte, negli ultimi trent’anni, della proclamata fine della pittura – fatto magico con cui, nel contemporaneo, parecchi teorici, critici e artisti hanno cercato non tanto di affermare sé stessi, quanto di cancellare gli altri – mi sono invece convinto che questo antichissimo rito di mettere dei colori su un supporto, anche proprio quelli tradizionali che vengono da un tubetto e si spalmano su una mestica che ha sotto pezzo di iuta, non ha alcuna prevedibile fine, almeno fino a quando resterà uno dei modi per cercar di capire se stesi e il mondo: ciò che rimane vero anche se si voglia  considerare la pittura solo come un atto terapeutico: ma chi oserà sostenere che la malattia e cura non servono alla conoscenza?
Dirò allora che Franco Pedrina è un pittore, e che anche la sua pittura è un fatto terapeutico, come lo è ogni filosofia, ogni visione del mondo che cerchi di attribuire un senso alla presenza dell’uomo nella storia, perciò riscattandolo da un esistere puramente fenomenologico.
Pedrina ci viene incontro con boschi, girasoli, interni. Ci viene incontro con angurie sfatte o con ceppi drammaticamente ribaltati nell’aria, e tutto questo non è solo metafora dell’umana fatica di vivere è, sommessamente, anche una moralità, una presa di posizione.
Queste opere infatti riconoscono che il rapporto con la realtà è ancora possibile: filtrato dall’angoscia o perfino dalla gioia, da una stupefazione quasi lieta o da un’analisi ansiosa delle tracce del mondo, è la cosa essenziale da indagare.
Questo, sul piano linguistico, significa naturalmente usare nel quadro una sintassi di cui noi riconosciamo la radice non nelle indagini delle neo-avanguardie, ma in quelle delle avanguardie storiche: dalla liberazione impressionista del colore, alla sua astanza emozionale e simbolica come è stata manifestata da certo informale.
E non per caso, visto che lo scopo di questa pittura non è una proposta linguistica, ma l’intensità emotiva che essa suscita in colui che, a poco a poco e per un astrazione senza lustrini, è invitato ad immergersi in essa. Infatti, oltre la raffinatezza talvolta lampeggiante, più spesso rastremata, da brivido, del colore – verdi e bruni dorati che insieme incantano e mettono ansia; e al di là della voluta sopravvivenza di essenziali rimandi classicisti – un accenno di prospettiva, l’apertura di fughe spaziali tanto più incisive, quanto più metaforizzate – questa è una pittura concava, alla Tintoretto, chiama dentro lo spettatore nei suoi boschi che hanno la familiarità del rifugio, ma anche lo smarrimento della metamorfosi della perdita; invita in soffitte ove fulgide e morenti apparizioni vegetali danno senso ad uno spazio altrimenti vuoto e senza scopo; imbandisce nature morte da atto sacrificale, nature morte invernali ed estreme, e perciò tanto più emozionanti: perché dentro di esse brucia la nostalgia di una pienezza classica, la sapienza di un mestiere che ora può rilevarsi quasi solo nascondendosi.
Così, stando per scelta in uno spazio linguistico lucidamente definito, Pedrina è appunto da ciò spinto ad affondi vertiginosi, che egli insegue con un’intelligenza pittorica rara, cogliendo risultati di forte intensità emozionale.
E se qualcuno volesse riferire questo suo modo di far pittura ad una antica tradizione naturalistica, quella veneta appunto, che partendo dal genio di Giovanni Bellini ha insegnato a tutta l’arte occidentale come si possa, col colore, riflettere sul mondo, a mio giudizio vedrebbe giusto: perché, al di là di tutti i passaggi storici, anche nella pittura di Pedrina resiste una nozione di temporalità e di luce, che è l’eredità tuttora vitale di quella straordinaria tradizione.

 

(Presentazione catalogo della mostra Galleria Comunale di Arte Contemporanea Ai Molini, Portogruaro, 1996)

 

 

 


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